MIRA ANDRIOLO La ricerca del Volto nell’arte del teatro: la trasfigurazione: il volto e la voce 2019

Spiritualità, Teatro
Mira Andriolo

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I cercatori del Volto di Dio

Diocesi di Alba ufficio Cultura    Comunità IL CAMPO

Ciclo di incontri 2009-2010

 

 

La ricerca del Volto nell’arte del teatro:

la trasfigurazione: il volto e la voce

 

 

C’è una chiesa di Alba dedicata alla trasfigurazione che ospita un’opera di Arcabas di grande fascino, si intitola appunto: trasfigurazione. La trasfigurazione per questo pittore straordinario è il Volto di Cristo o per meglio dire l’Universo intero che si fa, come sul negativo della antica pellicola fotografica, Volto di Dio . Olio su tela, quadrato aureo senza cornice sospeso nello spazio, oro e materia in movimento, grumi più scuri più chiari, masse informi, metallo fine, prezioso e materia grezza, opera aperta in cui sembra entrare anche lo spazio circostante e contingente, infinito eppure definito: l’universo che si delinea nel volto di Cristo Risorto. La visione del volto serio, sorridente e mite del Signore che emerge sovrano dalla lotta e dalla passione dall’universo. Il volto del Signore che si fa leggere, intravedere e dedurre come trama nell’ordito del cosmo. All’immagine manca ancora una cosa: la voce.

 

La trasfigurazione è il punto di compimento dell’intero creato oltre le doglie del parto. E’ l’epifania del Vivente. E’ la nascita continua del vivo senza più attraversamenti negativi, è fiamma del roveto che brucia senza consumare e irradia il suo dolcissimo vivente calore che tutto avvolge e sostiene, nutre.. Pertanto la trasfigurazione è lo specifico di ogni forma di arte. In quanto tale anche per quanto riguarda l’arte teatrale costituisce il punto di fuga o la vocazione  a cui tende il lavoro dell’attore.

 

 

 

Incontro: Il volto e la voce Oralità – scrittura – rito- corpo

 

Punto di compimento e perciò anche punto d’origine.

Sì. In principio è il Verbo o per dirlo in altre parole: in principio è il Volto materno che si china dolcissimo e ineffabile nel Segno del Silenzio, della riconciliazione delle quiete della pacificazione, della Presenza.

Esperienza prima originaria e originante di tutti gli esseri: la visione del Volto.

Al principio della vita umana c’è l’esperienza di un volto materno che ti guarda, al principio della mia vita nel teatro l’incontro con il volto di Maria madre di Dio. Il mio primo ruolo in teatro: Maria nella lauda “Donna de Paradiso” di Jacopone da Todi.

Allora non ne sapevo ancora niente, ma oggi so che è stata quella visione il filo scarlatto del mio sentiero nell’arte del teatro. Tutto devo a quell’incipit.

C’è una divinità che tiene un dito sulle labbra indicando alla sposa di fare silenzio al cospetto del corteggio divino, ne fa menzione Ovidio nelle Metamorfosi anche se non lo nomina sappiamo bene che si tratta di Arpocrate. Egli è colui che reprime la voce: quique premit vocem digitoque silentia suadet. E’ Il gesto del silenzio e dell’ascolto, di un silenzio che dispone alla visione del divino, che mostra come la parola non sia sempre indispensabile o capace di esprimere la forza dei pensieri; il segno di Arpocrate preserva la serenità del dormiente bloccando la brutalità dei suoni, è un gesto che, nel momento in cui reprime, salva la mente mettendola in condizione di capire l’ineffabile.-

 

Lo stesso segno è stato rivolto a Maria al principio della sua esperienza dall’Arcangelo Gabriele.

 

Il volto dell’altro sempre ci precede, come dice il filosofo Levinas, guardandoci ci rivela a noi stessi, ci dà esistenza, e subito ci invita al silenzio e quindi all’ascolto.

La visione del volto è la visione dell’icona – persona; tra due volti rivolti l’uno all’altro si crea e procede la vita stessa. Pensiamo nel libro dell’Esodo, il luogo della discesa e presenza del Signore è tra i due volti dei Cherubini che si guardano posti sull’arca.

Ma dicevamo prima bisogna imparare a tacere, perché si apra la visione, il mistero faccia irruzione e accada il dia-logo.

Questo tacere nel teatro è paragonabile “all’andare in buio” della sala prima dell’inizio della rappresentazione..

 

“…Sì forse la sola cosa che ho appreso dal teatro è questo inizio, un inizio assoluto, forse il solo che conosciamo qui. L’inizio di qualcosa che prima non c’era. L’inizio di un mondo, la nascita del vivo, improvviso dal buio della sala.” (R.de Monticelli)

 

Il teatro, arte della visione e del dialogo, prende vita proprio da questa esperienza di prossimità con la sorgente stessa della vita, del mistero.

A questo proposito Peter Brook, che si è molto dedicato nella sua vita alla dimensione sacra teatro riconoscendo il bisogno che oggi ne abbiamo, scrive:

 

“L’arte teatrale riunisce quel che è immutabile con il mondo che cambia in continuazione, che è precisamente dove ogni rappresentazione  ha luogo. Siamo in contatto con la sorgente ogni attimo della nostra vita. Questo altro mondo che si trova permanentemente lì è invisibile, poiché i nostri sensi non vi hanno accesso, sebbene possa essere compreso in molti modi e molte volte attraverso le nostre intuizioni. Tutte le pratiche spirituali ci portano verso il mondo invisibile, aiutandoci a tirarci indietro dal mondo delle impressioni nella quiete e nel silenzio. Tuttavia il teatro e una disciplina spirituale non sono la stessa cosa. Il teatro è un alleato esterno del cammino spirituale, esiste per offrire bagliori, inevitabilmente brevi, di quel mondo invisibile che permea quello di tutti i giorni, ed è normalmente ignorato dai nostri sensi”.

 

Il teatro ha la sua origine sacra proprio in questa esperienza; anche se

 

“Dioniso è il dio che grida forte, egli è il fragoroso, colui che si annuncia con il suono di cimbali, flauti, pifferi e bronzi squillanti. Tutto il suo carro rumoreggia del fragore delle baccanti, ma tutto lo smisurato clamore che annunzia il dio e lo accompagna, mai rivela così completamente il suo significato spirituale come quando improvvisamente si converte nel suo contrario, nel silenzio mortale. Il silenzio prepara visioni spesso anche orrorifiche sull’indicibile.”

 

La prossimità al mistero non è mai solo quiete ma anche timore e tremore potrebbe essere terrore e morte se il silenzio non ci preservasse.

Ciò che conta nell’esperienza teatrale è proprio questo colpo d’arresto, questa specie di morte improvvisa: l’interruzione che determina la sospensione del tempo ordinario per entrare nel tempo extra-ordinario dell’accadimento. Dal tempo vissuto come Kronos che divora i suoi figli, al tempo pieno, vivo del Kairòs: la pienezza dei tempi, l’oggi, l’ora. L’evento teatrale si colloca in questa ora. Hic et nunc.

Ed ecco allora la parola che viene. A separare (Sono venuto a portare la spada…a dividere).

La Parola sopravviene a separarci dal buio, dall’indistinto: (citazione Beauchamp-Maggiani)

 

“…Nei termini del primo racconto della creazione, la parola sorge come novità dell’origine o secondo il commento che ne farà il Vangelo di Giovanni  en archè. La parola era al principio intesa come ciò che esprime, senz’altro l’origine. Ma l’origine non è l’inizio. L’inizio è questa totalità indistinta da cui la parola ci ha appena separato…Barriera e porta. In tutto ciò che è stato detto infatti non tutto è stato detto. La parola creatrice viene, si incide nella carne; oralità-parola- scrittura, fanno corpo.

 

Il corpo dell’attore a sua volta si fa scrittura scenica.

L’attore offre il suo corpo al vuoto della scena e allo sguardo del dio e dello spettatore e si fa mediazione per il dia-logo necessario vitale tra l’umano e il trascendente, il dicibile e l’indicibile , il visibile e l’invisibile.

 

Si instaura così il singolare legame tra scrittura e celebrazione, scrittura e rito, scrittura e rappresentazione – teatro. Nel caso delle scritture sacre:  materialità del testo che porta le tracce della Parola di Dio; (adottando un’interpretazione bultmanniana) possiamo dire che alla doxa (rivelazione) ci si arriva solo attraverso la sarx (la scrittura e rito) e la sarx (scrittura e rito) sono la via alla doxa.

 

Ogni artista e più che mai l’attore teatrale ha il senso di questo valore della corporeità, e sa bene che la sua creazione non dipende da lui. Bisogna entrare in sintonia con quell’ energia vitale che permea l’universo. Vincere le proprie resistenze, pesantezze. L’attesa è il climax peculiare di ogni attività artistica, massima recettività, apertura all’ascolto più profondo, sopportazione dell’ignoto, dell’incertezza, della crisi. L’attesa con tutto il suo carico di inquietudine trepidante fino all’angoscia e insieme instancabile fiducia, l’attesa che finalmente tra i due volti rivolti, nello stupore e splendore della visione ancora muta, scenda la Presenza, soffi l’alito (ruach) che muove, forma, informa e si fa voce; in quel momento visione e ascolto coincidono (citare e leggere la trasfigurazione di Matteo).

 

Sappiamo che secondo gli stoici c’è un Pneuma un principio corporeo, un corpo sottile e luminoso della stessa natura del fuoco che pervade l’universo connaturato al soma di ciascuno: è la voce, che per l’appunto, altro non è che una parte di questo Pneuma che si irradia dal cuore e che, attraverso la gola, muove la lingua e si effonde nell’aria. Il senso del pericolo e del rischio mortale è sempre prossimo a chi si cimenta con le arti della parola. Nell’uso della voce c’è la radicata sensazione che si tratti di un atto irrimediabile. Un attore come un cantante questo lo sa bene, anche se ciò riguarda ciascuno di noi. La voce appena uscita fuori non può più ritornare. Il primo pensiero si può correggere col seguente migliore ma non così con la voce. L’uomo nella sua fisicità, soprattutto per via della voce, ha la percezione che può svuotarsi e perdere la sostanza interna; ma  a questo già consistente pericolo si aggiungono altre insidie come già anticamente scriveva Plutarco: l’incapacità di tacere o di avere controllo sulle parole da dire e sul come vengano emesse, comporta come primo male il non sapere ascoltare, – il che presupporrebbe la perdita dell’ispirazione. E inoltre lo svuotamento di pregnanza, di significanza della parola stessa. L’atto creativo in arte infatti non è altro che un atto di testimonianza dell’incontro impensabile e imprevedibile di ciò che possiamo appena intuire al di là della soglia sottile del visibile, che ci sorprende e quasi sempre ci spiazza, producendo in noi spesso una forte emozione. E’ questione di impressione e di espressione. Tanto più l’ascolto è preciso come una notizia che colpisce, tanto maggiore sarà l’impressione che se ne riceve. Tanto più chiara e precisa ne conseguirà l’espressione che sarà allora capace di trasmettere e suscitare il senso vivo e vero dell’accaduto. Questo diventa evento capace di trasformare la vita di chi si trova in quel momento nella funzione di spettatore e gli darà la forza di raccontare in altro modo in altri luoghi portare avanti tener viva la testimonianza della verità ricevuta. Si tratta allora di essere attenti alla disciplina che regola silenzio e emissione vocale, il dire parola e parole- che vigila i passaggi sottilissimi di ciò che si comunica: l’arte della recitazione è questa disciplina  è innanzitutto aver cura speciale di quanto ci in abita, di quanto portiamo dentro, nel fragile vaso del corpo. Attenzione  dunque vigilanza alla parola quanto al silenzio. Al suono quanto alla pausa. Il silenzio, speculare alla parola perché anch’esso in qualche modo legato ai meccanismi del corpo fisico, è chiamato a presiedere i luoghi della fonazione, gli orifizi dai quali sgorga il flatus vitae creatore.

 

(Maggiani) Persiste nell’immaginario collettivo la concezione ideologicamente predeterminata secondo la quale la voce è più vicina al corpo e la scrittura più vicina all’idea….Ma pensiamo alle prime tracce, le prime iscrizioni viste dagli uomini furono le impronte degli animali sulla neve: i cacciatori sapevano riconoscerle facendo corrispondere a ciascuna traccia l’animale proprio come una parola corrisponde a una cosa, l’osservazione di queste tracce come anche le venature di un legno o di una pietra hanno suggerito l’invenzione della scrittura;  quindi il segno scritto non si origina integralmente come traduzione della parola o della ricezione uditiva, bensì anche in modo autonomo, dal visivo. Sembrerebbe, a quanto ne dicono gli studiosi in materia, che la scrittura preceda addirittura la fonazione, e comunque sia traccia di una corposità propria dell’uomo-donna sia stanziale che nomade. Resta assodato che l’invenzione della scrittura nasce in un ambiente culturale di singolare maturazione circa la relazione tra gli uomini, le cose e le divinità.

Voce oralità scrittura linguaggio ripetiamolo sono inseparabili dalla corporeità dell’uomo- donna. Per cui il corpo diventa , e per la voce, e per la scrittura e per il relativo uso codificato dell’uno e dell’altra in una tessitura testuale/rituale, (Dubarle)  l’arci-simbolo di tutto l’ordine simbolico: perché è nel corpo che si articolano il dentro e il fuori, l’io e l’altro, la natura e la cultura, il bisogno e la domanda, il desiderio e la parola.

L’arci-simbolo o Il corpo vissuto dell’uomo-donna diventa pertanto mediazione e referenza e del singolo e della communitas. E questo prende peculiare rilevanza nell’attore.

Nessuna parola sfugge alla laboriosa inscrizione in un corpo, in una storia, in una lingua, insomma in un sistema di segni, in una trama discorsiva. E’ questa la legge: legge della mediazione. Legge del corpo.

Perciò la “rivelazione” quella cristiana come quella ebraica , ha potuto diventare parola di Dio soltanto attraverso l’esodo in un corpo di scrittura prima ancora che nella persona fisica del Figlio di Dio. Per trovare lo Spirito bisogna allora rifarsi alla Lettera. L’-antropologale è il luogo di ogni possibile teologale-(Chauvet, Simbolo e sacramento). Questo sta a significare che la rivelazione è fin nel suo inizio né solo spirituale né solo materiale ma tutte e due le cose simultaneamente. (vedi Abramo Levi “Parola e contemplazione” pag.68-69)

 

La scena vuota corrisponde alla pagina bianca su cui verrà tracciata una scrittura di cui il corpo dell’attore è la lettera o le lettere che si susseguono come fluire di punti in movimento.

(P. Brook) Una rappresentazione è un flusso con curve in salita e in discesa. Per raggiungere un momento di profondo significato, abbiamo bisogno di una catena di momenti che incominci su un livello semplice e naturale, ci conduca verso l’intensità e poi ci riporti via. Il tempo, che così spesso nella vita dell’uomo è nemico, può diventare nostro alleato se capiamo come un momento pallido possa portare  a uno luminoso, e poi ancora  a un momento di perfetta trasparenza, prima di ricadere di nuovo fino a diventare un momento di semplice quotidianità,… e in questo ci è stato maestro Shakespeare.

 

La mia ricerca nel teatro è stata segnata fin dal principio dalla percezione viva della sua origine cioè della connessione con la dimensione del sacro: ciò che ci separa dal mondo in quanto totalmente altro in ciò che sperimentiamo, ciò che pur manifestandosi nelle forme sensibili resta un oltre inconcepibile. Diceva l’amico Abramo Levi: “è ciò che vediamo che ci impedisce di vedere!”. Ho capito presto che ciò che si vede e cade sotto la giurisdizione dei nostri sensi, è allusione , indicazione ponte verso un ulteriorità di tutte le cose create. Simbolo dicevamo. Fin da bambina incontrando la pratica dell’arte teatrale ho compreso che era l’habitat in cui avrei voluto rimanere sempre perché nessun altro linguaggio mi è parso mai più appropriato per crescere tenendo insieme due istanze che sentivo irrinunciabili: la libertà espressiva e il rigore dell’obbedienza, come suggerisce la parola ab-audienza – stare nell’ascolto – ovvero: rimanere nella vita, anzi crescere in pienezza vitale solo grazie alla condizione di dipendere totalmente dall’ascolto e dall’obbedienza della voce ineffabile del Vivente. “Ascoltatelo” dice il Padre, “Sia fatta la tua volontà” ci ha insegnato Gesù.

Il teatro è infatti lo spazio del simbolico; scrive Abramo Levi:

 

A che serve il simbolo? Sarebbe come a dire a che serve il centro del cerchio mentre la circonferenza è visibilissima? Ebbene proprio perché non dice niente il simbolo serve a coniugare due realtà che non facilmente si collegano tra loro: in ambito liturgico si dice:il regno di Dio è qualcosa che viene – il Regno di Dio è qualcosa verso cui si va. In termini di senso comune queste due realtà possono essere descritte così: Dio vuole che noi facciamo la sua volontà e anche Dio vuole che noi operiamo secondo la nostra volontà.

 

Cominciare ad occuparmi di testi sacri è stato quindi il naturale approdo di questa peculiare navigazione. Ma a differenza che con qualsiasi altro testo poetico, quando l’attore si imbatte in un testo sacro è come se finalmente tutte le dinamiche profonde del suo mestiere si facessero estreme e quindi chiare. Così come l’attore per lo spettatore è mediatore di un “altro mondo” che fiorisce e si fa leggibile nel suo corpo-voce; così la scrittura per lui è il corpo mediatore della Presenza vivente che lo interroga, lo chiama, lo muove e lo spinge all’annuncio creativo. Passaggi di testimonianze. Parrebbe strano trattandosi di un arte che si sostanzia nell’azione, ma quando si entra nel mondo della scrittura sacra l’attore riceve l’insegnamento ultimo ovvero quello più fondamentale, cioè che nell’arte si tratta di disporsi più alla contemplazione che all’azione.

 

(Abramo L.) E perché ci possa essere contemplazione della parola si esige da parte del contemplante l’esclusione di qualsiasi interesse o appropriazione soggettiva della parola stessa… Bisogna farsi da parte. Non si deve pretendere di contenerla ricevendola. E’ piuttosto la parola che ci riempie senza che noi la possiamo contenere.

 

E riempiendoci ci unifica e ci dà forma, esistenza e gioia. Non può esistere lavoro creativo senza gioia.

Tutta la nostra creatività e la nostra espressività sono proporzionali al lavoro creativo della Parola e del suo spirito in noi. Unica condizione la duttilità la disponibilità a “lasciarsi fare”, la sospensione di ogni personale giudizio o peggio pregiudizio. Di ogni preoccupazione o occupazione di se, di qualsiasi forma di auto gratificazione, di soddisfazione. Puro atto a perdere o a trasmettere. Gioco. Solo allora, completamente dato, rivolto e vulnerabile, il corpo vivo dell’attore potrà trasfigurarsi sotto gli occhi degli spettatori che potranno, a loro volta, contemplare in lui le voci del mondo, le loro storie, a loro volta trasfigurate in un oltre di senso: quello poetico. A ciascun spettatore coinvolto toccato com-mosso nel momento presente dalla verità del gioco teatrale, quest’arte allora ricorderà che l’unica cosa a cui siamo chiamati ( possiamo dirlo con Holderlin), è quella di abitare poeticamente la terra. Abitarla nella verità nella giustizia nella pace, questo significa poeticamente. Poiché mai poesia può sgorgare da illusione o menzogna. Solo così avremo cieli nuovi e terre e sensi e relazioni nuovi. In questa trasfigurazione del reale anche le nostre tragedie assumono e rivelano nuovo senso e significato. Cominciamo allora ad intuire che ciò che conta non è se la nostra vita abbia o no un lieto fine ma che piano piano divenga più vita,  facendosi pienezza di senso, vorrei arrischiarmi a dire senza retorica “opera d’arte” che riveli il Volto compassionevole del Dio nascosto.

 

“Io sono il Signore tuo Dio…apri la tua bocca la voglio riempire” si legge nel Salmo 81,11 e nel Salmo 51,17 (il famoso Miserere) “Signore apri le mie labbra, e la mia bocca proclami la tua lode.

 

Dobbiamo riscoprire il senso della comunicazione ed è evidente che non ci si può  limitare a diffondere e moltiplicare voce e parola. Dobbiamo invece far tacere in noi il frastuono di questo mondo bombardato da immagini convulse di ogni genere, parole pubblicitarie che suonano a vuoto, voci violente. Si tratta invece di riscoprire una comunicazione bocca a bocca che porti la stessa qualità di un Bacio. Farsi cassa di risonanza nitida, sonora senza rimbombo, chiara senza abbaglio, spiritualmente emozionante senza stordimento.

Possiamo ben dire che questa rappresenta una delle vette più alte del lavoro dell’interprete teatrale, che per trovare la giusta intonazione, il recto tono, avrebbero detto i medievali, deve appunto affinare l’orecchio e l’occhio spingendoli fuori dal campo visivo e uditivo, là dove sembra non esserci più nulla da vedere e da udire. Esser capaci di stàre in questa crisi odierna dei linguaggi e delle forme in questo buio disorientante, abbagliante, senza perderci d’animo, senza venir meno. Certi che prima o poi arriveranno segnali ultramondani che ci indicheranno nuovi sentieri e nuove direzioni da prendere, ma più tesi a sperimentare l’appartenenza che presi a pensare a ciò che abbiamo da fare.

 

A questo proposito vorrei concludere con il racconto singolare che Giovanni fa nel suo Vangelo della trasfigurazione.

Sappiamo come nei racconti degli altri evangelisti e anche in quelli del primo testamento il luogo della trasfigurazione sia il monte. Mosè salì sul monte. Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse in disparte su un alto monte. Giovanni invece non dice nulla della trasfigurazione sul monte, la descrive in tutt’altro modo, la colloca dopo la resurrezione, non su un monte ma in riva al mare:

 

“…Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: – Io vado a pescare – . Gli dissero: – Veniamo anche noi con te -. Allora uscirono e salirono sulla barca ma; ma quella notte non presero nulla. Era già mattina quando Gesù apparve sulla riva ma essi non lo riconobbero. Gesù allora disse loro: -Figlioli non avete nulla da mangiare? -Gli risposero: – No -. Allora disse loro: – Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete -. La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: – E’ il Signore!”

 

Ecco la trasfigurazione. L’opera del pittore Arcabas mi ha rievocato fortemente questa trasfigurazione di Giovanni: il Volto di Cristo è il centro della circonferenza, il Suo volto che emerge dalle acque indistinte del nostro vivere e fa del nostro caos, cosmo pacificato.

Il Signore che si presenta sulla riva, alla sua presenza possiamo dichiarare tutta la nostra fame!

È alla sua domanda che prendiamo consapevolezza, è Lui che ci riunisce intorno al suo fuoco, è Lui che ci mette in condizione di nutrire i nostri bisogni più profondi è Lui che cucina per noi il pesce. Ecco la trasfigurazione: la conversione di tutti i nostri sensi, pensieri e movimenti.

A noi solo testimoniare. Farci “voce che grida nel deserto, preparate le vie del Signore.”

 

 

 

Mira Andriolo

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Mira Andriolo

  Come albero piantato lungo un fiume. Laboratorio sul tema della preghiera, sulle tracce dei maestri di spiritualità.

Parola, teatro e liturgia

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